venerdì 6 novembre 2009

Si parla… e si sparla di carcere

Nell’ultimo, ineluttabile libro di Bruno Vespa Silvio Berlusconi scopre la finalità rieducativa della pena.

“Uno stato civile (...) deve togliere la libertà a chi è stato condannato per aver commesso un reato, ma non può togliergli la dignità e perfino attentare alla sua salute”. “E poi la detenzione deve avere sempre la finalità di rieducare la persona”

Siamo felici che non coltivi il proposito di modificare anche l’articolo 27 della Costituzione.

Saremmo ancora più felici se come ricetta non avesse solo il progetto di costruire nuovi carceri, attingendo dalla Cassa delle Ammende, le cui finalità sono state appositamente rivedute e corrette con un intervento legislativo.

Nata per finanziare i progetti di reinserimento dei detenuti, ora la Cassa delle Ammende viene utilizzata per l’edilizia penitenziaria.

È un ente giuridico autonomo dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ma l’art. 44bis della legge 14 del 2009 conferisce i poteri di commissario straordinario, in relazione all’edilizia penitenziaria, allo stesso capo del Dipartimento.

L’obiettivo dichiarato è di reperire 20.000 nuovi posti, che comunque non sarebbero poi 20.000, perché nel frattempo il Presidente del Consiglio parla di dismettere alcuni carceri ora funzionanti, che diverrebbero sedi di hotel e supermarket; e nel frattempo nessuno spiega perché prima di procedere alla costruzione di nuove strutture non si rendono utilizzabili alcuni istituti in stato di abbandono.

E comunque i nuovi posti non sarebbero sufficienti, visto il proliferare di leggi che causa un eccesso di carcerizzazione , riempiendo di poveracci le patrie galere, e visto lo scarso utilizzo di quelle misure alternative che pure hanno finora garantito la vivibilità nelle carceri e la riduzione della recidiva

Vista la nuova sensibilità dimostrata alla finalità rieducativa della pena, il Presidente del Consiglio dovrebbe spiegarci perché il suo governo ha proceduto a tagliare selvaggiamente i fondi destinati alle attività trattamentali, perché si è praticamente estinto il monte ore destinato al servizio psicologico, perché si deve ricorrere all’aiuto del volontariato e dei

territori più sensibili per fornire generi di prima necessità: carta igienica, saponi, dentifrici, assorbenti, indumenti di ricambio per tanti detenuti, stranieri e non, che non possono contare sul sostegno delle famiglie.

Mai come negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una serie di interventi incoerenti e sconnessi che denotano l’incapacità o la mancanza di volontà di affrontare i reali problemi del carcere, che certo ospita persone di elevata pericolosità sociale, ma soprattutto è affollato da una moltitudine di tossicodipendenti, stranieri, senza fissa dimora, portatori di disagio psichico e psichiatrico.

Persone detenute per pene brevi, che ritornano presto nel circuito esterno dell’emarginazione, persone a cui una società civile è tenuta a dare risposte che in qualche modo provino a interrompere l’utilizzo del carcere come porta girevole.

Invece, ben lungi dall’investire sul carcere come un servizio di legalità, come luogo per l’esecuzione di una pena che, molto prima del Presidente del Consiglio, la nostra Costituzione ha indicato come riabilitativa, si è proceduto progressivamente ad un inesorabile impoverimento di ogni tipo di risorse.

Il carcere è carente di tutto, anche e drammaticamente di operatori, che spesso condividono con i detenuti una condizione di povertà, povertà di strutture, di servizi, di considerazione sociale.

Si sopperisce e si sopravvive grazie allo spirito di iniziativa, alla buona volontà, alla professionalità di tanti lavoratori che hanno scelto di stare dalla parte della legge, e che provano a offrire un dignitoso servizio pubblico, perché tale deve essere il carcere, non la facile risposta a derive securtarie e ansie giustizialiste, né tanto meno un vuoto di diritti.

In questi giorni si intensifica l’attenzione sulle condizioni dei penitenziari, soprattutto dopo le morti di Stefano Cucchi e Diana Blefari, così diverse e insieme così disperate.

Ben venga l’attenzione, ben vengano le foto shock e le testimonianze che danno corpo e volto ad una realtà che per tanta parte dell’opinione pubblica è ancora vissuta come la sola risposta al bisogno di sicurezza, ma che è anche fatta di persone e di sofferenza.

Ma soprattutto da parte di chi professa sensibilità a certi temi, ci si aspetta uno sforzo di rigore per evitare la strumentalizzazione e la ricerca del facile sensazionalismo a cui siamo fin troppo avvezzi (quante volte abbiamo deplorato il fatto che una rapina commessa durante un permesso premio faccia molta più notizia dei ben più numerosi positivi esiti delle misure alternative!).

Nella rassegna stampa di Ristretti Orizzonti del 4 novembre l’articolo di Giacomo Russo Spena “Giustizia: quegli orrori dimenticati, dietro le mura delle carceri” si mettono insieme tristi circostanziati eventi, quali le vicende legate al G8 di Genova, al carcere san Sebastiano, e analoghi ampiamente documentati e accertati, con la denuncia di sistematici pestaggi e abusi nel carcere di Torino effettuata da un medico dopo l’interruzione del rapporto di lavoro. Non viene precisato che rispetto a tale denuncia la Procura di Torino ha chiesto l’archiviazione

Forse non ci si ferma abbastanza a pensare come alcune ferite possano, a volte ingiustamente, riguardare un’intera collettività: non solo le vittime e gli autori delle presunte violazioni, ma il personale penitenziario tutto, l’associazionismo, il sindacato, tutta quella parte di società che quotidianamente viene a contatto con il carcere e che rispetto a ciò non avrebbe abbastanza vigilato e tutelato.

Certo bisogna tenere alta la guardia, nella consapevolezza che in ogni luogo, in ogni apparato ci possono essere schegge impazzite e uomini indegni di rappresentare lo Stato, e che non sempre ci sono le condizioni per una tempestiva azione di denuncia.

Bisogna però al contempo evitare generalizzazioni che non migliorano la conoscenza della realtà, che creano un clima di diffusa sfiducia penalizzando ingiustamente tante persone che faticano per dare un minimo di dignità al proprio lavoro e un senso all’esistenza del carcere

Che, ricordiamolo, rappresenta una sanzione che la società civile dà in risposta alla rottura di un patto sociale, patto che tutti siamo tenuti a ricostruire, all’interno e all’esterno dei penitenziari.

Anna Donata Greco Coordinamento Ammin. Penitenziaria CGIL F.P. Piemonte

Roberto Galasso Segreteria Regionale CGIL F.P. Piemonte

2 commenti:

Unknown ha detto...

Il carcere come vendetta.
La convenzione diffusa che uno in carcere ci va per sempre e non disturba più.
Il concetto di reato che viene determinato dai diversi governi (oggi è diventato reato la clandestinità, domani chissà).
Nessuno vuol parlare di carcere, di detenuti, di pena: più facile invocarlo che conoscerlo, più facile dimenticare i motivi che portano a delinquere che i modi per rieducare, più facile vedere chi ha fame e ruba una mela che il politico che intasca milioni e la fa franca.
gabriella bona

vincenzo ha detto...

GIUSTIZIA CHE NON ABBANDONA MAI NESSUNO AL PROPRIO DESTINO

C’è una distesa di sangue e di corpi intorno a noi, è scompaginata la storia sotto di noi, è in atto un vero e proprio abbattimento dei sentimenti.
Scorrono le immagini alla tv, le foto sui quotidiani, i labiali dei commentatori sembrano ghigni, alla meno peggio scrollate di spalle, l’obiettivo da raggiungere è convincere, non stabilire come lo si fa.
Eppure in carcere il cittadino muore a ritmo di sei detenuti al mese, in strada si cade tumefatti da entità invisibili, si spara alle spalle, alla testa, nel mucchio, è tutto un video show che non trattiene commozione, unicamente scariche di adrenalina a poco prezzo, infatti “non succede a me, accade agli altri”.
C’è chi ricatta, chi compra, chi vende, per qualcosa di ipocritamente proibito, chi addirittura inventa un gioco nuovo in una sociologia vetusta, per riuscire a sentirci innocenti di essere colpevoli, per una realtà altamente ingiusta, sino a rendere la vita un salvadanaio che non rigetta monete, neppure quando sono sporche di sangue.
Il dispendio di violenza fisica, psicologica, verbale, ha decretato la sconfitta dei buoni sentimenti, delle emozioni, meglio renderle inoffensive, e circuirle, e addomesticarle, costringerle mansuete con la disattenzione più colpevole.
Pena certa, giustizia giusta, chi sbaglia paga, sono diventati slogan per obbligare la mente a non fare il proprio dovere, costringendo in condizioni vergognose pilastri universali come la compassione, la pietà, il perdono, giungendo a mettere al muro della berlina mediatica, quanti non intendono accettare una giustizia che offre verità poco corrispondenti alla realtà.
Quando si parla di carcere, di punizione, lo si fa senza tentare quanto meno di raggiungere una meta sociale possibile, senza inciampare nelle giustificazioni, nelle spiegazioni più inverosimili, trasformando la speranza di un preciso interesse collettivo in una pratica di minore importanza, rispetto agli interessi presuntamene superiori.
C’è sempre meno spazio per la commozione, la riflessione, aumenta la spinta a colpire la pancia, a mettere fuori gioco la compassione etico cristiana, quella che si muove dentro ogni persona, e fa cambiare di assetto, di volontà politica, perché coinvolge ognuno a immedesimarsi, a consegnare una risposta, non rimanendo ancorati a una ingiustizia travestita di rancore.
Tutto ciò non dimissiona alcuna responsabilità, non relega a una parte infinitesimale i frammenti che compongono una persona, la normale anormalità della morte, del dolore e della sofferenza, di chi è vittima e di chi è colpevole, di coloro che scontano la propria condanna e tentano di riparare, di ritornare a essere parte viva del consorzio sociale, nel silenzio laborioso della rivisitazione.
Quando scompaiono le idee, gli ideali, rimangono le rivalse, le rivincite, che non producono nulla, che non tutelano alcuno, tradendo il compito di aprire a un altro scenario, che può finalmente significare non solo la necessità-esigenza di una riforma, ma la nascita di una giustizia vera, alta, condivisa, davvero, che non assolve né condanna in nome di qualche recondito potere contrattuale, una giustizia che possiede attenzione sufficiente a non abbandonare mai nessuno al proprio destino.